Un sorriso semplice, pieno, gli corse sul viso, per gli occhi e si discoprirono appena i denti bianchi.
Era tutta la felicità che poteva esprimere in quel giorno di sole, mentre la terra bruciava, e desiderava con tutto il cuore che essa si diffondesse su tutto e su tutti, come una strana epidemia che portasse sollievo e conforto.
Andava tra i suoi fratelli di colore, quelli con i quali sino al giorno prima aveva diviso ogni sorta di fatiche, senza un attimo di sosta, con il terrore in corpo di essere frustati per un nonnulla, alle volte senza spiegarsi nemmeno il perché.
Don Diego si era disfatto il giorno prima di Ghimel e Alef, due figuri da forca che teneva alle sue dipendenze da tempo e che, come aguzzini, gli avevano reso il miglior servizio del mondo.
Ma ogni cosa ha un limite, e don Diego non poteva sopportare che essi vivessero da nababbi alle sue spalle, tanto più che non gli era riuscito di appurare in qual modo lo imbrogliassero, per quanto cercasse di tenere gli occhi aperti e avesse assoldato qualche confidente per venirne a capo.
Certo la modesta paga che aveva pattuito con loro non lasciava adito a godimenti, ma egli era del parere che, convenuta una mercede per un determinato servizio, si dovesse poi stare ai patti, senza recriminazioni di sorta. E in effetti Ghimel e Alef ai patti ci stavano senza altre pretese, ma era fin troppo evidente che ci stavano solo perché in un qualche modo riuscivano a metterlo nel sacco, affiatati come erano tra di loro per comunità di razza e superiori a chiunque in astuzia.
L’unica soddisfazione che poté togliersi prima di mandarli via fu quella di appioppare all’uno e all’altro un paio di calcioni nella schiena, urlando come un ossesso colpe indecifrabili e ragioni ancora meno chiare.
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