Ester ovvero (dal bulgaro) "Destino della Negazione"
*Men fredda e impassibile assiste Antiope alla punizione di *Circe.“
… e tu mi hai gettato nel profondo, nell’abisso del mare e le acque mi circondarono; tutti i tuoi gorghi e tutti i tuoi flutti si sono chiusi sul mio capo.”
Profezia di Giona. Cap. 2 parag. 4
Ora voglio scendere un po’ tra gli uomini. Non perché nutra verso di essi alcuna simpatia o mi sia venuta a noia la mia baita qui tra i monti; gli uomini nulla fecero per rendersi da me amati o benvisti e la mia baita l’ho messa su io, un po’ con le mie mani, un po’ con l’aiuto di Paolo Charbormier, che è il mio migliore amico dopo Ciro.
Ciro ha il bel pelo folto e arruffato, fin sul muso,fin sugli occhi, e nelle lunghe notti d’inverno mi tiene tanto caldi i piedi, che né le rame di pino, né quelle di ginepro sanno fare altrettanto; e di esse è composto il mio pagliericcio.
Avrei tanti altri amici, ma lo so io solo perché quelli non si curano affatto di me: l’odore forte di resina che emana dalle rame di pino, il bel fuoco che mi procurano quando son secche e schioppettanti , il bosco laggiù che mi assicura la carne e questo ruscello limpido-limpido, con l’acqua sempre fresca che mi ristora dopo le battute al camoscio o la caccia solitaria alle pernici bianche; il Granero infine e il Monviso, l’uno di fronte all’altro, con le bianche vette sempre scintillanti; e sembra che a gridar dall’uno ci si debba sentire dall’altro, tanto son soli e immersi nella vasta solitudine di queste Alpi.
Ciro resta però il mio migliore amico. Mi accompagna dappertutto e diventa persino festante quando imbraccio il fucile; vorrebbe saltarmi addosso, allora, per esprimermi la sua gioia e qualche volta ci riesce. Soltanto quando per istinto avverte che anch’io sento il bisogno di fargli una carezza, sembra allora che mi legga negli occhi e avverta la profonda tristezza, che coglie per qualche momento l’uomo nella solitudine. Anch’esso mi sembra tanto pensieroso, forse perché è abituato a guardare soltanto nei miei occhi; qualche volta è perfino taciturno.
Se sapesse parlare mi direbbe certamente che vorrebbe vedermi più allegro e più festante; che se continuiamo a vivere così diventeremo vecchi anzi tempo e intristiti. Ma io gli potrei anche rispondere che sono tanto tranquillo, tanto felice di vivere quassù, tra questi monti che io conosco come la mia casetta, dove vissi da piccolo, laggiù, nella Dobrugia, e dove forse la mia vecchia madre prepara ogni sera il mio letticciolo, nella speranza che un giorno ritorni a lei, chè ero il suo unico conforto. E forse vive tuttora in questa illusione e sostenuta da questa speranza; povera vecchia!
Non mi congedai nemmeno, ma scappai come un lupo; come il lupo dopo aver dilaniato il cuore della sua vittima!
Ecco, forse quando penso queste cose io divento tanto triste e Ciro mi vorrebbe parlare. Ma è bene che scacci queste idee, altrimenti Ciro ne muore e anche ora la colpa sarebbe la mia.
E mia madre? Vive ella ancora? Ma se anche così fosse, non sarebbe più in grado di coltivare il suo orto, che teneva con tanta cura; gli occhi saranno diventati tanto stanchi sulle tele che lavorava anche la notte, per guadagnare di che nutrirmi. Ma ora certamente non lavorerà più sulle tele, e per chi lo farebbe? Per lei? Per lei bastano le radici che crescono spontanee ai margini dei solchi e le patate che ha sempre coltivato e che raccoglieva in un canto della mia stanza; ce n’erano tante che non sapeva cosa farsene: le regalava allora ad un suo lontano parente, che io chiamavo zio Boris. Ma zio Boris ci portava in cambio quasi sempre il bel pane di granoturco, biondo e soffice. Era un suo segreto quello di rendere soffice il pane di granturco e ricordo che molti lo compravano apposta da lui e anche la mamma lo comprava quando Boris non glielo poteva più regalare.
Sergio, mi diceva allora, vieni che ti do i soldi per andarti a comprare un bel pane fresco da zio Boris, per la zuppa; e circospetta si avvicinava ad un mobile, uno dei pochi della nostra casa e ne traeva una scatola di cartone che una volta era servita a contenere lo zucchero, quello a zollette, che teneva solo per me, e ora custodiva tutto il tesoro della mamma.
Tutto per me, solo per me, come se nessuna altra cosa potesse interessarla e a nessun altro dovesse rivolgere le sue cure! Non vi era che il suo Sergio al mondo e questo affetto diveniva sempre più grande; avvertivo di essere l’unico scopo della sua vita.
E quella notte mi nascosi lì, tra le siepi dell’orto, ed ella con voce inquieta mi chiamò a sera, quand’io ero solito ritornare a casa, dopo le lezioni di padre Zhariski; ripeté a notte il mio nome lamentosamente; con angoscia infine. Forse era scarmigliata, agghiacciata dallo spavento, quando a notte fonda uscì da casa e il suo grido finì in un lamento. Mi turai inorridito le orecchie ed ebbi la ferocia di non rispondere all’invocazione di mia madre; poi fuggii , fuggii lontano per non sentirlo più quell’urlo straziato dal dolore. Ma esso mi risuona ancora qua , nelle orecchie e mi accompagnerà certo per tutta la vita.
Ma perché mi guardi con quegli occhi, mio amico? Già, tu non puoi comprendermi e non vuoi vedermi così pensieroso. Su, vieni, per te ho una carezza.
Ecco che ora diventi contento! Ma no, non mi saltare addosso con tutta quella foga, se no mi fai andare a terra! Hai le zampe robuste come quelle di un leoncello, e mi scuoti tutto quando mi fai una simile festa. Lo comprendo, sei giovine; hai trenta lune, io trenta primavere. Ma son giovine anch’io. sai spiegarmi perché se tu dovessi per miracolo giungere alla mia età saresti vecchio e spelato e anche le lepri ti potrebbero ridere sotto il muso, mentre io sono così fresco e vegeto e mi sento nella pienezza della vita? No, lascia che ti accarezzi, ti chiedo troppo, mio giovine amico; anche se io volessi chiedere tali cose a me stesso o a tanti altri uomini ancora, non ne avrei mai una risposta soddisfacente. Cosa vuoi che ne sappiano gli uomini del mistero della vita? Essi sono agitati dalla paura, dagli interessi, dall’invidia, dalle cure personali e da quelle familiari; essi giungono alle soglie della morte senza mai essersi domandati cosa sono venuti a fare sulla terra. Nemmeno tu te lo domandi, mio giovine amico; un mattino io o chi ti avrà allora ti troverà stecchito, freddo, sulla via della tua cuccia, perché speravi di giungere almeno là per esalare l’ultimo respiro.
Credi tu forse che un giorno non troveranno anche me, con il capo affondato tra le nevi, nell’ultimo sforzo di arrancare verso la mia povera baita.
Ma tutti quegli uomini laggiù, che corrono, che litigano, che si affannano e non vedono mai uno spiraglio di luce o un raggio di sole, li vedi tu? Ti sembrano felici perché hanno di che nutrirsi, di che vestirsi, di che sollazzarsi? Non lo credere, se così ti sembra! Tu, cento volte più felice, che prendi il cibo dalle mie mani e che mangi con avida gioia, guardandomi con occhi pieni di riconoscenza; e il tuo pelo ti salva da questo freddo gelido e dalle intemperie e quando hai voglia di giocare non ti manca la forza di correre dietro le lepri e di spaventare fagiani e pernici. Ora mi vorresti domandare in che cosa si distinguono dunque tutti gli uomini da te? Lascia che te lo dica: in nulla; solo tu sei più felice! No, non ti meravigliare, anche se essi dicono di avere un’intelligenza molto più sviluppata della tua e affermano di avere un’anima! Sai cosa sene fanno di questa intelligenza? Quasi tutti la usano a fin di bene personale e di male verso il prossimo; circa l’anima poi, si ricordano di essa solo nei momenti in cui la viltà e la paura li posseggono, perché temono di dover rendere conto a qualcuno di tutto il male che han fatto! Tu invece sei libero da queste cure e da tali affanni. Vuoi vedere uno che è veramente felice come te? Guarda: è un meschino lacero, con le mani sempre sporche e i piedi scalzi; ride quasi sempre anche se i ragazzi gli fanno la baia o gli tirano addosso sassi: atteggia la faccia per un momento al dolore; come se io ti dessi una pedata, tu guairesti, ma poi sorride di nuovo e forse fugge, perché istintivamente avverte che se sta lì fermo, quel dolore si rinnova: come se io dopo averti dato una pedata, allungassi il piede per dartene un’altra; allora fuggiresti prima che io ti colpissi di nuovo. Quegli è felice al pari di te: cosa vuoi che la sua mente sia eccitata dalla fantasia di una vita migliore, dai premi che da tale vita discendano, dall’amore verso un dio? Chè altrimenti sarei anche io un dio per te! Ma tu non esiteresti a mordermi se invece di lisciarti il folto pelo e di baciarti sul muso, ti picchiassi continuativamente e ti facessi del male. Gli uomini, invece non si ribellano al loro destino; l’accettano e temono e pregano e innalzano templi per propiziarsi gli dei: dimenticano però quasi sempre di essere buoni ed onesti. Sai che io mi sia fermato mai dinanzi all’ostacolo di queste guglie? Dove persino tu temi di mettere il tuo, io metto il mio piede e mai per un momento mi sono voltato indietro, se no sarei cascato inesorabilmente nell’abisso. Io perciò forgio il mio destino, con la mia volontà, e non imprecherò mai contro di esso, perché saprei di imprecare contro me stesso. Ma cento altri si lasciano trasportare dal Caso, come fuscelli nella tempesta e rotolano e rotolano, e novantanove finiranno nelle acque piovane e sporche dei rigagnoli e forse uno si salverà da tale furia e tornerà a rivedere il sole dal quale aveva distolto lo sguardo: ma anch’egli nato dal Caso.
Hai ragione; ora incomincio ad annoiarti, se continuo così. Ma a chi vuoi che io dica i miei pensieri? Gli uomini mi chiamerebbero pazzo e non mi ascolterebbero che per curiosità. Tu invece mi guardi con grandi occhi e cerchi di cogliere il mio pensiero.
Ora scendiamo a valle. Te l’ho promesso e l’ho promesso un po’ a me stesso stanotte; ma non ci debbo pensar troppo, se no cambio idea. Se mi domando cosa devo andare a fare in mezzo agli uomini, allora non mi muovo più dalla baita, e tu non avresti nemmeno il piacere di stare qualche tempo in mezzo ad un nuovo mondo, men triste e solitario di questo al quale ti ho condannato. Però credo che nessun altro ti piaccia ugualmente.
Nella baita c’è il sacco da montagna e il fucile; ci sono anche tanti altri utensili che mi consentono di trascorrere una vita meno primordiale. C’è poi sempre la carne fresca e per cuocerla il fuoco non manca; né manca la neve per conservarla. Siamo già in maggio e ancora tutto dintorno, nelle zone in ombra, è bianco e ce ne sarà sino ai primi di agosto. La baita però è abbastanza grande e potrebbe contenere dell’altro. C’è anzi una cameretta a parte e quella è riserbata per Paolo Charbonnier; ma egli ci sta sempre pochissimo: al massimo qualche notte, quando si aprono le cataratte dal cielo o infuria la tormenta; e se lo colgono per istrada. Ma è ben raro; il suo occhio è come quello del vecchio marinaio, che senza curvarsi sulle acque, le scandaglia e vi dirige la barca.
Né poi io desidererei tenermelo troppo vicino, né egli ci terrebbe. Egli ha laggiù a La Perlà, dove la Comba sbocca nella valle del Pellice, la sua casa, la sua famiglia, il suo magazzino e i suoi affari.
Io non saprei definirlo ancora quest’uomo, però egli ha una tal forza di volontà, un coraggio sperimentato a tutto prova che non posso fare a meno di ammirarlo e di sentirmelo amico. Ha un piccolo difetto, ch’è anche il mio difetto e credo sia quello di tutti gli uomini in cui predomini solo la volontà: è chiuso, taciturno spesso; e lo sono un po’ tutti i suoi valligiani.
La prima volta che lo vidi fu nella mia baita, ed era l’alba. Diede un calcio così violento alla porta, che quella per miracolo si sostenne sui cardini che io avevo messo in sesto da qualche giorno.
Era stata quella baita, posta chissà perché sul mio cammino, a farmi prendere quindici giorni prima la risoluzione di rimanere ancora fra quei monti. Avevo detto un addio a tutto, a Bricherasio, alla sua bella chiesa monumentale e ricca di preziosi, ai suoi sontuosi cipressi e alle cento ville attorno tenute con cura da mani amorose; avevo anche detto addio quella sera, ma tra me e me, a padron Ferrari dopo avermi corrisposto la paga di fine settimana ed essersene trattenuta almeno un terzo con tanti pretesti (mi diceva che io ero turco e in Italia dovevo pagare una tassa speciale). Avevo pagato il mio debito, senza lasciar trapelar nulla al grasso e grosso oste della “Corona Grossa”, che quella sera era stato più generoso del solito offrendomi, extra diceva, una vecchia bottiglia di Barbera delle sue ammuffite cantine; avevo teso la mano a Ester, ma con un gesto più stanco del solito, come se tutto il lavoro di un’intera settimana me lo sentissi in quel momento tutto sulle spalle, e me ne ero andato a dormire. Cioè avevo fatto finta di andare a dormire.
Raccolsi le mie cose, quelle che mi potevano essere più utili, le ficcai tutte alla rinfusa nel sacco da montagna che sinora era servito per la caccia o le gite domenicali in montagna al rifugio Plavan, al Vandalino, al Frioland; deposi con cura nella tasca fonda della “cacciatora” la bella browning, un tempo proprietà della signora Lincovich, anzi di suo marito, al quale l’aveva tolta per farmene un regalo, imbracciai il mio fucile belga calibro 16, offertomi generosamente a suon di quattrini dal nobile marchese D’Affranto e presi la via dei monti.
Conoscevo ancora pochissimo la catena di quelle Alpi, ma avevo la precisa intuizione dove il confine trovavasi e dove mi sarebbe stato più facile varcarlo, senza recar disturbo alle brave guardie di finanza poste di vedetta ai pochi punti di obbligato passaggio.
A ciò mi serviva egregiamente una carta della zona che avevo acquistato a Torino per le mie escursioni nei giorni di festa..
Avevo intenzione di fuggirmene al più presto da quei luoghi, correre un po’ per la Francia, che ancora non conoscevo e che le genti del Piemonte mi avevano magnificato; imbarcarmi infine per le Americhe con uno dei tanti piroscafi che partivano ogni giorno dai porti di Marsiglia e di Bordeaux.
Il mito delle Americhe mi attraeva come quello di Cronos, di cui un giorno padre Zhariski mi aveva parlato come di un fatto che aveva rivoluzionato il mondo; mi piaceva immensamente quello Zeusi che aveva avuto il generoso ardire di schiacciare il proprio padre per il bene comune. Perché non avrei dovuto anche io essere ardimentoso e gettarmi in quella lotta come contro una bocca mostruosa pronta ad inghiottirmi?
Chi era stato l’incauto che aveva costruito quella baita lassù, tra quei due colli, ove persino gli snelli pini non avevano avuto la forza di allignare, a tanta altitudine, percorsi dalla bufera e spaccati dal gelo? Aveva anche egli in un momento di folle ardire ucciso il padre ed era fuggito il più lontano dagli uomini per acquattarsi lì tra il monte e il cielo, roso dal rimorso e pauroso della vista degli uomini? No, quegli che commette tanto male, odia la luce e cerca le tenebre; e l’anima sua non è attratta verso altezze e luoghi tanto sublimi!
Era mancata certo a lui la guida materna, e nella estate calda delle Alpi aveva menato lassù il suo gregge, in cerca delle erba più tenere e delle acque più pure. Doveva essere felice allora.
Si costruì la baita e forse la piccola stanzetta era riservata a lui e quella più grande alle sue pecore. E visse per un momento felice. Quando? Io trovai la baita diruta e il tetto sprofondato; le porte erano ormai rose dal tempo e dal gelo e i muri vecchi e anneriti erano tutti coperti di muschio. Sparse intorno vi erano lastre e lastre di pietra nera sfaldabile; come se una forza ignota e centrifuga le avesse, in un momento di vendetta, scagliate lontano dalla baita, cui eran servite da tetto e da muri. E da quella furia ciclopica erano state allora calpeste cento vite nascenti alla luce del sole, prima monde e protette dal bianco manto delle nevi leggere. Ma le forze occulte del male erano trionfate per un solo istante: altre cento e cento vite erano nate, e i muschi, i licheni, i bianchi mughetti, le tarde viole avevano di nuovo invaso il campo, un dì loro dominio. E il tempo avrebbe cancellato la traccia dell’uomo; a granello a granello, frammisti al nevischio e agli aghi teneri dei pini, avrebbe trasportato lontano i muri, la calce, le pietre, i leggeri tronchi di abete a sostegno del tetto, tutto, e sarebbe stata cancellata con essi la memoria dell’uomo, che togliendoli dal sonno inerte delle cose, aveva trasfuso in essi, unendoli, una vita interiore come un dì la mano del Creatore aveva plasmato la prima creatura.
Sedetti dinanzi alla baita diruta, un po’ per riposarmi dal cammino faticoso, un po’ vinto da cento nuovi pensieri, che sinora erano rimasti latenti nella mia mente. E li scoprii, li vagliai ad uno ad uno con la fredda calma e durezza dell’uomo che dopo aver aperto la pancia al paziente per operarlo di appendicite, ama guardare e toccare le visceri, pronto ad affondare di nuovo il bisturi in un altro posto, ove ce ne fosse bisogno e ora che egli ha la possibilità di farlo, scorgendo un male nuovo e finora non avvertito.
Perché mi sarei dovuto recare in Francia, in America, chissà dove? Non ero sinora corso per la Bulgaria, la Iugoslavia, l’Italia ?
Volevo così rinunciare alla lotta che tanto mi aveva infiammato, stavo per essere un vile?
Affondai di nuovo con calma le mani nelle visceri in cerca del male. Contro chi avrei pertanto lottato, dovunque io fossi andato, se non sempre contro gli uomini? Erano nemici leali costoro? Potevano mutar pelle, nome, lingua, costumi, ma erano pur sempre gli stessi. Ognuno e tutti avrebbero usato nella lotta ogni mezzo, ogni insidia, ogni inganno. Mi disgustava ormai tale lotta, non condotta a guisa di lupo contro lupo, ma di serpe acquattato in attesa della vittima.
Mi guardai intorno: monti, boschi, monti; picchi inaccessibili e dirupi immensi, acque chete o sonanti nel silenzio vespertino delle Alpi. Ecco i miei migliori amici e i più leali nemici. Qui la lotta era coraggiosa, bella, ad armi impari forse, ma leale pur sempre.
Qui mi sarei dovuto aspettare la sferza della tormenta, la tenaglia del gelo, la rovina della valanga, la potenza dell’uragano; qui erano le forze della natura, note ed ignote, contro cui io doveva lottare e che mi avrebbero potuto cogliere anche alla sprovvista. Ma io almeno ne avevo accettato la sfida!
Spinsi cautamente una delle due porte della baita, con la curiosità e la titubanza dell’impubere che guarda frammezzo le cosce di una donna addormentata e discinta. Essa cedette dopo un leggero scricchiolio, e cadde con un tonfo secco verso l’interno. Rabbrividii, come se avessi violato un sepolcro egizio e avessi fatto cascare incautamente la mummia che prima se ne era stata immobile, eretta a sfida dei secoli ed ora giaceva in frantumi con il volto schiacciato contro la terra. Curvandomi entrai nella baita dopo aver deposto il sacco e il fucile. La prima cosa di cui mi accorsi, per averci battuto contro con violenza la fronte, fu un’asse che pendeva dal tetto, schiantata chissà se dal fulmine o schiacciata dal peso delle lastre di pietra. Rimasi stordito per un po’ dinanzi a quel palo vindice del segreto violato e in quel passaggio inavvertito, dal dolore alla normalità, ebbi modo intanto di vedere ciò che la baita conteneva. Un tanfo come di robe marce si sprigionava dal suolo cosparso di pozzanghere e commista al fango la paglia era marcia e trita. Un brandello di stoffa di fustagno sbiadita era appesa ad un grosso chiodo arrugginito piantato fortemente nel muro nell’interstizio tra sasso e sasso, e in un angolo, mezzo coperto dalla paglia, un nodoso bastone da pastore completava l’arredamento. Paglia ve ne era dappertutto; alcune fili galleggiavano sull’acqua raccolta nella buca più grande del pavimento al centro della baita: forse lì perché appunto al disopra si apriva un grande spiraglio verso il cielo. Le pagliuzze giacevano immote sull’acqua, leggere.
Sopra una di esse una formichetta; non ha ali: non saprò mai come ci sia arrivata.
Forse trasportata da un leggero soffio di vento, forse cascata da quello spiraglio di cielo. La pagliuzza è la sua nave, ma la nave è immobile e il nocchiere inesperto del nuoto. Corre in su e giù dall’un capo all’altro della pagliuzza e pare esasperata di non trovare una via di scampo come il capitano del veliero che colto dalla bonaccia in alto mare non sa più con quali mezzi condurre la nave in porto.
Tenta con le zampette l’infido elemento e se ne ritrae indecisa, s’arresta; ritenta dall’altra parte con le chele ed il capo; vi affonda se non è lesta a ritrarsi di nuovo. Sente che non c’è via di scampo, ma non per questo desiste: ora ha compiuto il giro completo intorno alla pagliuzza e si è convinta che il suo mondo è diventato piccolo piccolo. (Forse non sa ancora spiegarsi come tutto ciò sia potuto accadere, se prima era solita correre dappertutto senza incorrere in tale intoppo o incorsa le era stato facile evitarlo). Sente il bisogno prepotente di evadere da quel piccolo mondo: avverte che ne morrebbe; come l’uomo chiuso fra le mura del suo villaggio, del suo paese, della sua città vuole correre fuori attratto dal miraggio dell’altro nuovo mondo che lo circonda, anche se ad ogni passo sa di andare incontro a rischi e pericoli.
E’ immota lì, sulle zampette, come dinanzi ad una decisione suprema. In quella immobilità estrema vidi me stesso dietro la siepe dell’orto materno, ormai deciso a varcare i limiti della casa, del villaggio, della patria.
Ora ha deciso: perché non c’è altra scelta o perché spera di giungere in luoghi più sicuri affrontando il pericolo? Annaspa nel mezzo dell’acqua con ansia mortale e l’ignoto elemento la circonda e l’attrae; le zampette posteriori immerse come in una viscida sostanza non sanno essere più utilizzate. Se potessi guardare nel suo occhio, ora lo vedrei colto da quella folle paura che si disegna su quella del cavallo quando incauto e bizzarro è corso verso il padule e ne viene inghiottito a poco a poco dalle sue sabbie mobili, senza rendersi conto del perché prima correva leggero e veloce nella prateria e ora in un momento le sue gambe non obbediscono più all’impulso e alla foga. Pensa in quegli ultimi istanti alla guida sicura dell’uomo, per cui mai ebbe ad incorrere in un simile male?
Le zampette anteriori si agitano ancora sull’acqua e sembra che nuoti sicura; ma in realtà annaspa sempre e desidererebbe tornare donde è partita. Ma non scorge più quella proda lontana.
Si abbandona un momento come vinta da una stanchezza mortale; ma così si accorge che anche la testa, sinora tenuta a stento fuori delle acque, vi affonda se non compie uno sforzo supremo. Agita ancora disperatamente le zampette, si muove, s’avvia. Si ferma ancora un istante, come per raccogliere tutte le forze restanti e corre di nuovo sulle acque con estrema lentezza: ma ad essa sembra di correre in quel vorticoso muover le zampe.
Ecco finalmente una proda; le zampette non annaspano più nel vuoto, si aggrappano come le
braccia del naufrago al rottame galleggiante e sicuro. Affonda e chiude le chele su quel nuovo elemento, ristà ormai stanca e sicura, come pregustando il premio di tanto sforzo; poi ritrae cauta e lenta il corpo dall’acqua per tema di cascarci di nuovo e rimanere inghiottita.
Corre veloce su quella nuova dimora, come sicura di una vita migliore. Essa è una nuova pagliuzza, che nuota sull’infido elemento, forse più piccola, più angusta della prima, più lontana da una proda veramente sicura. S’arresta smarrita, esausta, senza capire, senza sapere. Avverte solo che la vita non è più cosa tanto preziosa, ora, che ha conosciuto il pericolo, di nuovo l’affronta. Ed eccola di nuovo lì, nel mezzo delle acque, non più titubante e indecisa, con la speranza che le deriva forse dalla precedente esperienza. Raggiunge il sasso vicino, si arrampica, forte, sicura; sembra aver tutto dimenticato dei momenti trascorsi: non si volge nemmeno più indietro.
Si attacca ad un granello di sabbia credendolo buona proda, e nell’istesso momento il granello, mosso, si stacca dalla superficie del sasso, rotola verso l’acqua, vi casca vi affonda. Ha appena il tempo di staccarsene, per non venire sommersa con esso, attratta dal vortice. Ma ne esce lo stesso completamente bagnata: non trova nemmeno più la forza di muoversi, come avesse le membra fasciate. Affonda lentamente così, senza più sperare, cercare di porsi in salvo; ancora pochi istanti; poi le acque si chiudono sul suo capo, un corpo inerte si posa sul fondo melmoso; una piccola nube sollevata dal peso cascato la circonda, la nasconde, l’inghiotte, e il fondo torna limpido, come nulla fosse accaduto.
Un freddo brivido mi corse per le ossa, come si fosse sprigionato da tutte quelle cose senza più vita e istintivamente corsi verso la luce del sole. E per discacciarlo una foga febbrile m’invase.
Lavorai più ore intensamente fino a che le ultime luci del giorno me ne diedero la possibilità; e vuotai la baita dai sassi neri e corrosi, dall’acqua che vi stagnava nelle anguste pozzanghere, dalla paglia marcia e inutile. Fu come se vi avessi tolto anche un po’ di quel tanfo e di quell’umidore che per primi mi avevano colpito.
Dimora per la notte mi fu l’altra stanza della baita, più piccola mensporca più solida dell’altra; miglior riparo al freddo, al vento, alla pioggia.
I giorni che seguirono furono tutti dedicati ad un’opera lenta e continua di rinnovamento; mi aiutai con i miei utensili, la mia forza, la mia esperienza. Il cielo fu persino clemente in quell’ottobre inoltrato: una sola notte infuriò la tormenta e venne giù la neve e la stanza grande della baita si tramutò in un piccolo lago. Il sole ritornò il giorno seguente, caldo, ristoratore; e la prima neve si sciolse per incanto, lasciando però nell’aria qualcosa di sé, come la sua grande anima che incominciava a palpitare sui monti vasti e quieti.
* * * II * * *
- Credi che me ne disfarei, mi disse, se non sapessi proprio come tenerlo, con tutta questa gente che va e viene? Eppoi ci son tanti cacciatori di frodo che avrebbero anche una voglia matta di fregarselo. Ma io tanto d’occhi sopra ci metto: a me non la fanno, ché son vecchio montanaro io, e so sempre che aria spira! Guarda, tu mi fai proprio simpatia, sei un bravo giovine, mi pare, e tu lo terrai bene e sono sicuro che ne farai un gran cane. Che pena dovermene disfare; quando morì la buon’anima di mia moglie rimasi tanto solo. Sa Iddio con che pena me ne distaccai! Da allora ho voluto tenere presso me qualcuno su cui avessi potuto concentrare tutto il mio affetto. Quella sciagurata di mia figlia partì, abbandonandomi qualche giorno dopo ch’era morta sua madre. Mi restò la sola consolazione di un buon pugno d’oro che mi diede in cambio quel tale che se la portò via, altrimenti non si sarebbe mossa di qui nemmeno morta, si sarebbe mossa! Avevo un bel gatto d’angora; lo pagai poche lire da un contadino che non sapeva cosa farsene, dopo che gli era morto il figliolo, per il quale era diventato un buon compagno; così divenne il mio amico, dopo che mia figlia mi abbandonò! La notte veniva a fare le fusa sui miei piedi mentre dormivo. Poi venne quel maledetto Gianni di Pian Rorà e vidi che ci bazzicava attorno; con la scusa di comprare mezzo litro di questo buono, di questo che ho dato a te stasera, proprio buono, sai, delle terre dei Conti di Castelvecchio, e se sapessi quanto mi costa! Basta, capii che girava attorno al mio gatto e se lo faceva amico con pezzetti di formaggio e lisciandolo, accarezzandolo. Io non avevo tempo né modo di pensare a lui; eravamo amici perché l’avevo comprato, gli davo i resti da mangiare e basta. Ma quello ci si affezionava con il formaggio. Gli dico: Gianni, il gatto tu me lo devi lasciare stare, vedo che gli fai la corte e io sono affezionato a lui come a quella buon’anima di mia moglie.
Mi fa: sai cosa c’è di nuovo, vecchio pitocco, te lo pago dieci volte quanto l’hai pagato tu e basta. Forse glielo avrei dato anche per meno, ma a sentirmi chiamare vecchio pitocco, sai, volli esserlo sul serio e, scucili tutti, gli dissi, quei quattro soldi che hai in tasca, carogna, se vuoi il mio gatto. Tira, molla me ne lasciò anche lui un bel po’, non certamente come quello sciagurato che portò via mia figlia, ma neppure fu una cifra disprezzabile! E ora anche tu vuoi portarmi via questo cucciolo! Guarda quant’è carino, che bel musetto; eppoi che pelo, una seta! Non me ne vorrei distaccare per tutto l’oro del mondo!
Bevve d’un sorso un bicchiere di vino, quasi per ricompensarsi di quel po’ po’ di discorso che andava facendo, si avvicinò alla porta del rifugio, guardò il cielo: brutto tempo, ragazzo, disse. Ti preparerò da dormire qui, un bel letto, vedrai. Solo agli ospiti bravi come te, sai, uso tali riguardi, ché, quei quattro cialtroni che vengono nei dì di festa a godersi lo spettacolo e il sole di queste Alpi, quelle lì, giuraddio, le fò dormire in solaio! Ma tu soldi ce n’hai? rise di gusto e con l’indice teso mi solleticò l’ombelico, ce n’hai, ripeté tutto soddisfatto, pregustando già il suono delle monete. Ed io il cucciolo te lo voglio dare, anche se debbo avere un altro colpo al cuore. Promettimi che non me lo maltratterai , me ne farebbe tanta pena!
Era quasi brillo, certamente allegro quella sera Beppe l’Orso, e doveva aver fatto affari d’oro durante il giorno con quelle due stamberghe che costituivano tutto il rifugio Barbara e la sua ricchezza.
Egli pareva che i soldi li spremesse fin dalle pietre e non tralasciava alcuna occasione per trarne da ogni cosa. Paolo Charbonnier, contro il suo solito, il giorno prima me l’aveva dipinto allegramente e aveva voluto scommettere che il cucciolo non me lo avrebbe ceduto per meno di duecento lire. Ma se lo vuoi, aveva aggiunto, te lo porterò io domani, gratis, com’è vero Iddio e rideremo tanto alle spalle di quel vecchio ebreo dell’Orso. No, no, lo comprerò domani da lui, protestai, e vedrai che sarai tu a rimetterci la bottiglia che hai voluto scommettere. Ma ora, nonostante tutta la sua allegria, quel vecchio dell’Orso mi pareva dovesse, non solo farmi perdere la scommessa, ma rinunciare al cane. Il vecchio continuò, dopo aver tracannato un altro bicchiere del vino che mi aveva venduto e che tenevo dinnanzi , senza dirmi neppure permesso: lo chiamo Tiscot,Tuscot, non so come l’ha chiamato precisamente quel somaro d’un tedesco capitato qui qualche settimana fa.
di Fedor Nicolay Smejerlink