... già sono i calafati proni
su l’ardue ferite; allo scoglio
tu forti senz’altra speranza
condotta che morte. Ti tolse
la Frode il nocchiero, l’onore.
Dall’onda funesta travolta
non fosti, non fosti dal fato
segnata. Per mille perigli
la prora lucente fu volta
e mille fatiche sostenne
la chiglia d’acciaro rubesta.
Si schiantò come arbore fessa
dal fuoco tremendo del cielo,
qual tenera rame premuta
dall’intimo gelo. Ma un palpito
ancora correa, una scintilla
di vita nel petto profondo
dal seno del mare rapita.
Quell’augure fuoco che tigne
la vela al tramonto di sangue
svanir fa l’ebbrezza dell’angue
lo desta l’esorta ad agir.
Tal nasce una vita novella
nell’alma avvilita; dal muto
tuo cuore pulsante s’eleva
il fragor dei metalli. Stilla
di sangue il pennone, la tolda
raccoglie ogni stilla; ogni fronte
s’imperla, negli occhi sfavilla
la gioia dell’opra. Sul pelago
infido rifatta dall’imo
tu tendi, ritenti la meta,
ritorni all’agone. Ti guidi
l’antica saggezza, ti sproni
l’amaro lavacro di lacrime
versate per te, Nave Italia,
che mozza quassata riprendi
l’avvio. Quel dì che dal pino
maggiore a garrire l’emblema
ritorni per le sue marine
operose, avrai sugellato
con l’arte maestra latina
il merto concesso dai Fati
del reggere i popoli, o Roma
di Fedor Nicolay Smejerlink