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Don Pietro Fagà

Don Pietro Fagà

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Soleva dire, a chi ancora gli chiedeva perché i figli amavano il lavoro come il diavolo l’acqua santa, che lo sbaglio più grosso della sua vita era stato quello di avere sposato la figlia di Antonio Ballotta, che terre al sole ne aveva tanta da poter dare lavoro a tutta la gente di Majerato e di Sant’Onofrio messa insieme, ma che lui non si era mai preoccupato di andare a vedere quanto era lunga e quanto era larga per non far la fatica di percorrerla a piedi.


Si era provato, veramente, una volta, quando tutta l’eredità paterna gli era cascata tra capo e collo trovandolo tanto pigro e tanto impreparato; ma dopo fatti cento metri tra l’erbe ancor roride di rugiada del mattino, si era accorto che le nobili estremità risentivano dell’umido di cui era impregnata la campagna, ed aveva fatto un subito dietro front e per tre giorni si era cacciato a letto per tema di un grosso malanno.

Lui era nobile: “nobili si nasce – diceva – non si diventa e perdi tempo e fatica ad incivilire il villano; sempre villano è, anche se ha un portafogli grosso così” . Lui no; la nobiltà ce l’aveva nel sangue, lui, e l’unica fatica della sua vita era stata quella di farlo intendere a tutti con le parole e con i fatti quando le sue parole non bastavano. Non c’era verso che promessa una cosa si ritrattasse, perché parola di galantuomo non si nega, diceva. Ma siccome questo mondo non è fatto purtroppo tutto da galantuomini e siccome ormai tutti gli avevano conosciuto il debole, era successo che di galantuomini a Majerato non c’era che lui finché si trattava di parlarne in pubblico, e di fessi c’era pure lui soltanto, quando se ne discuteva in privato.
Perciò non è da meravigliarsi se tutto quel ben di Dio che la provvidenza aveva male assegnato venisse ad assottigliarsi di giorno in giorno, senza che Antonio Ballotta se ne desse gran pena. La moglie era una gran brava donna anche lei, ed era morta alcuni anni dopo sposati lasciandogli una bimba di tre anni, capricciosa e dispettosa da non dire però, e di cui il povero padre diceva che certamente il diavolo gliela aveva cambiata quando era nata o le era entrata in corpo.
A quindici anni Saveria aveva già preso le redini della casa ed al padre che le predicava la nobiltà degli avi e la distanza cui dovevano essere tenuti i miseri mortali, anche aiutandoli, rispondeva che egli era un babbeo e con quelle sue idee in testa stava mandando la casa alla rovina e che da muoversi aveva se non voleva che il suo sangue azzurro gli si inacidisse anzi tempo. Ma l’uomo è tal quale natura lo fa; se legno, hai voglia di batterlo a destra e a manca, legno resta; e se coccio, hai voglia di metterlo al fuoco, sempre refrattario è.
Così le parole di Saveria non sfiorarono neppure le spalle del padre, il quale fece il solo sforzo di alzarle alquanto, in segno di compatimento, come colui che ormai tutte le impressioni di questo mondo lasciano indifferente. Lei invece si armò di sproni e frustino, insellò una delle giovini puledre che scorazzavano libere per la Piana, e dall’alba al tramonto ai lavori, alle semine, ai raccolti volle essere presente, consumando un pasto frugale con i suoi coloni, i mezzadri, i lavoratori a giornata, e tornando la sera a casa mezza morta dalla stanchezza e con una gran gioia nel cuore.
Intanto enumerava al padre i vantaggi della sua presenza sulle terre e tutte le migliorie che vi aveva fatto apportare. Aveva restituito al patrimonio paterno in poco tempo tanto di quel terreno da poter beneficiare venti famiglie: solo che era successo che tanta gente si era beneficiata da sé, prendendo una fetta come si fa da un grosso cocomero e spendendo appena qualche parola con Antonio Ballotta, perché Dio ci liberi, essi non erano dei ladri o degli approfittatori, ma conoscevano il cuore grande di don Antonio e si rivolgevano a lui come a un santo che li liberasse dai loro mali: sotto ogni latitudine infatti il male più grande per l’uomo è considerato la miseria. Invece per Antonio Ballotta il male più grave dell’uomo era la ricchezza, tanto che egli aveva tentato a suo modo di disfarsene e se proprio non vi era riuscito non era colpa sua.
Don Pietro conobbe Saveria durante una delle sue solite battute alla lepre pei boschi che dalla Piana di Majerato digradano verso l’Angitola; ella aveva diciannove anni allora: bella, altera, piena di vita e di ardore, lanciata al galoppo sulla cavalla focosa, gli era apparsa come Diana cacciatrice per la china che portava al limitare del bosco. Ed era rimasto così, con il fucile a mezz’aria, un occhio alla lepre ed uno alla bellissima amazzone, incerto; intanto la prima gli era fuggita e la seconda non era di facile cattura.
Egli aveva sentito dire talvolta dai carbonai che incontrava per i boschi o dalle vecchie massaie sulle aie, dove si fermava a chiedere un sorso di acqua, che don Antonio Ballotta aveva una figlia, anzi un diavolo di figlia, che non somigliava affatto a quel santo uomo e che non lasciava in pace nessuno, ora pretendendo dagli uni, cosa mai vista né udita, che le pagassero un tanto per quel po’ di carbone che ricavavano dal bosco e che Dio solo sa con quanta fatica portavano giù alla marina per guadagnarsi un pezzo di pane, ora imponendo alle altre di corrispondere raddoppiato, triplicato, il canone di affitto del fondo, se non volevano essere gettate sulla strada con tutta la famiglia.
Ma non ci aveva mai fatto caso; anzi avendola vista qualche volta da lontano, aveva rivolto altrove i suoi passi. Ché quando cacciava o pescava compiva un rito e nient’altro poteva distornare la su attenzione; alla caccia e alla pesca dedicava una parte dei giorni della settimana e per il restante provvedeva ai suoi affari che non erano pochi e di poca importanza per un giovine par suo, che a trent’anni si trovava padrone di un patrimonio ingente da amministrare e amico di un tale che avrebbe voluto avere meno amico e meno seccatore: Ferdinando di Borbone.
Di amici a Pizzo il Borbone ne aveva due: lui e il Trentacapilli, che il padre da semplice capitano aveva innalzato al grado di colonnello per avere un giorno, non lo sapeva bene lo stesso interessato come, arrestato Gioacchino Murat che con venti uomini e molti sorrisi tentava di riprendersi il regno delle Due Sicilie, come se si fosse trattato di conquistare il cuore e il corpo di una donna piuttosto restia. Ma il Trentacapilli era ormai vecchio e per di più non era nobile. Ferdinando era invece giovine e buontempone e si andava cercando degli amici di tal fatta, purché di gran lignaggio.
Una sola volta bisticciarono veramente Antonio Ballotta e sua figlia: e fu il giorno in cui don Pietro gliela chiese in isposa, dopo quell’incontro inaspettato. Saveria non voleva saperne, ma egli fu irremovibile: da agnello divenne leone; tanto che ella ne fu sgomenta, per tema che al padre desse di volta il cervello, e valutato il pro ed il contro non le restò che accettare. Non senza prima sentirsi ripetere per la centesima volta la storia della nobile famiglia di cui entrava a far parte. Don Pietro Fagà y Merillas y Salvadores y Canteros, ecc , Grande di Spagna e Principe di Toledo, era il grande avo che aveva reso illustre il nome di quel casato in Ispagna e fuori dai confini del regno; la stella dei Napoleonidi lo aveva offuscato per un momento e costretta l’illustre gente a fuggire nelle lontane Calabrie, accolta però con la più schietta amicizia dai Borboni e divenuta amicissima degli stessi. Rifiutare un partito di quella fatta era una pazzia: don Antonio sarebbe morto di crepacuore e avrebbe parlato per chissà quanto pur di persuaderla. Quando infine la sua tesi trionfò dette un sospiro di soddisfazione intima come se fosse stato liberato da un incubo.
Il matrimonio però non fu gran che felice, perché su una sola cosa i due giovani andavano perfettamente d’accordo: nel ridersela della mania di don Antonio sulle sue idee in fatto di nobiltà. Ma si comprende facilmente come ciò solo non bastasse a cementare l’unione degli sposi, come non può un sole pallido di mezzo gennaio recare gran ristoro alla morta natura.
Infatti dopo dieci anni di matrimonio e dopo aver messo al mondo sei figli ed essere incinta del settimo, Saveria era rimasta quella dei sedici anni: capricciosa, dispettosa, irruente e con quel diavolo in corpo di andare in giro da mane a sera per la campagna, per tema che un colono la imbrogliasse sul raccolto delle ulive, un altro sulla resa del grano, un altro ancora sulla spremitura delle uve.
Diceva la gente ch’era proprio il Signore a farla dannare così, perché era cattiva con tutti e per nessuno aveva un briciolo di pietà, mentre così grande, così generoso era stato il padre suo, che aveva certamente infilata la via del Paradiso.
Succede questo, che nell’impotenza l’uomo immagini Domeneddio com’egli vorrebbe si comportasse con certa gente, e ne fa un terribile vendicatore; un carnefice ne farebbe, se fosse possibile, pur di vedere mozzo il capo del nemico. Succede che talvolta capitino fatti e avvenimenti tali che gli diano ragione, che gli facciano esclamare:” te l’avevo detto io che un giorno o l’altro il Signore l’avrebbe punito!”. Ché se tutti i guai e le sciagure che capitano agli uomini fossero castighi del Signore, altro che giudice supremo di giustizia sarebbe con certa povera gente ed onesta che a lui rivolge i più intimi pensieri e le sue preghiere e ottiene in cambio le più grandi sventure e i maggiori dolori!
Ora, si può cadere da cavallo? dico io! Cascò anche Bernadotte, sol che si rialzò subito e peccati sulla coscienza ne aveva! Invece quando Saveria cadde non si rialzò più con le proprie gambe ed era già incinta da cinque mesi, poverina!
Le raccolsero, lei e l’ultima nata di due anni che si portava seco quel giorno, alcuni contadini che si trovavano a passare per quella stradicciola di campagna, mentre la cavalla, liberatasi del peso fastidioso, se ne stava alquanto discosta e tranquilla, tutta intenta al cibo fresco dei campi.
Se ne morì di lì a sei mesi, dopo aver messo al mondo il settimo nato, Edoardo e aver sofferto grandi pene, senza potersi muovere un giorno dal letto e respirare l’aria pura dei campi, mirare il verde degli ulivi, inebriarsi del profumo degli aranceti in fiore: tutto il suo mondo.

* * *

Ha settant’anni don Pietro: è diventato l’ombra di se stesso. Di quel gran pezzo d’uomo ch’era prima non è rimasto che l’occhio vivo e acceso dei vent’anni, di dominatore, soffuso di nobile serenità. Per il resto le spalle gli si sono incurvate, le chiome son tutte bianche e rade alle tempie, le guance incavate lasciano sorgere da esse gli zigomi forti addolciti dalla bella barba bianca e fluente, che lo rende ancor più venerando.
Gli vogliono tutti bene, tutti lo stimano, gli baciano le mani in quel paese di marinai e contadini. Dei marinai è soprattutto l’idolo: ora che le gambe non gli reggono troppo e la mano gli trema sensibilmente ha dovuto cessare di andare a caccia; eppoi gli occhi sono tanto stanchi e non vede più bene: l’ultima volta sparò contro un ciuco di cui si scorgevano appena le orecchie che spuntavano da un cespuglio, e lui ficcò dentro una fucilata scambiandole per un colombaccio! La povera bestia si gettò a terra e lì a ragliare di santa ragione. Gliene avrebbe pagati dieci di asini al proprietario se fosse stato sicuro che quegli non sarebbe andato a ridirlo in giro e a farsi grosse risate. Stimò perciò più opportuno girare al largo abbandonando l’asino alla sua morte e da quel giorno non imbracciò più il fucile.
Ma il mare no; sul mare era nato si può quasi dire, lì era cresciuto, lì erano tutti i ricordi più belli dell’infanzia e della giovinezza, e quel ceruleo immenso si era stemperato negli occhi, nelle cento vene sottili che correvano a fior di pelle, sulle tempie e sulle mani emaciate. Non passa giorno ch’egli non vada a pescare con la canna se calmo, o se in burrasca sta lì a contemplarselo dal loggiato della sua casa che è ad un tiro di schioppo; conta ad una ad una le onde che vengono a frangersi sulla spiaggia, più forti men forti; cerca di indovinare quale si spinga più avanti con la sua bianca frangia di spume sino a lambire la strada e giungere talvolta fin sotto i suoi balconi. E la salsedine gl’imperla la bella barba, gl’inumidisce il viso e le mani, intisichisce le pianticelle e i fiori che ha disposto con tanta cura sul terrazzo e che carezza, come per proteggerli, con la mano stanca.
Se il temporale si scatena d’improvviso, se sorprende le leggere imbarcazioni alla pesca lungi dal porto, ecco il suo occhio rabbuiarsi, correre sulle onde, mentre con la destra fa schermo al vento e alla pioggia. Se le trombe marine corrono minacciose sul mare, le madri, le mogli, i fratelli di quei miseri che corron pericolo, son lì ad implorarlo, a sollecitarlo che spezzi la cattiva coda che può capovolgere in un attimo le barche più grosse come tanti fuscelli e succhiarsi i loro congiunti, così come fa dell’ostrica il polipo.
E lui scende fra essi e pronuncia certe parole misteriose che prima di morire padron Mommo Piricchio volle a lui solo insegnare e affidare perché ne era il più degno. Era stato sui banchi di Terranova padron Mommo a pescare, ne aveva visto di tutti i colori e cento volte era sfuggito alla morte. Diceva però di non aver conosciuto mai un uomo come don Pietro: non era soltanto un grande signore, era soprattutto un uomo eccezionale, che nascondeva i sé la forza di comandare agli elementi. E don Pietro, per pietà verso colui che moriva con tanta fiducia in lui, accettò l’incarico che l’avrebbe fatto sorridere se gli fosse stato suggerito da chiunque altro.
Superstizioso infatti non lo era mai stato: temeva però da un momento all’altro di perdere la fiducia di tutta quella buona gente, perché non sempre impunemente si comanda agli elementi: e lui alla fiducia di quel suo popolo serio e onesto ci teneva.
Quasi tutto si era adattato a perdere pur di mantenere la sua dirittura di carattere e la sua onestà: né, fiero per natura, aveva saputo uniformarsi alle circostanze. Quando nel ’60 il suo amico di giovinezza, il Borbone, dovette salpare per altri lidi e la statua che il padre di quegli aveva offerto alla sua “città fedelissima”, venne abbattuta con furia e dispregio dai soldati di Garibaldi, egli raccolse e serbò gelosamente alcuni pezzetti di quel marmo che l’arte somma del Canova aveva scolpito. Ai delegati del Re di Sardegna, che chiedevano il suo appoggio per ottenere il favore della popolazione, rispose breve che gli amici non si cambiano con il cambiar delle loro fortune e che mai egli avrebbe speso una parola in favore del nuovo Re. Naturalmente di parole ne spesero in abbondanza quei messi, e tanto dissero che, quanto non avevano avuto il tempo di delapidare i figli di don Pietro, andò a finire nelle casse del nuovo Stato. A lui increbbe soltanto di essere stato defraudato ingiustamente del suo patrimonio, cosa che nella sua rigida onestà non poteva ammettere, ma per il resto ne fu come contento, venendo così necessariamente a porsi termine alla condotta dei figli che da don Antonio Ballotta avevano ereditato un po’ tutti i vizi e dalla madre la virtù di cavalcare eccellentemente: solo che a cavalcare andavano per i fatti loro e non a controllare di fondo in fondo i coloni, i mezzadri, i fittavoli.
Dal nonno avevano preso appieno la mania della nobiltà, e se talvolta il padre cercava di indicar loro la via del dovere, borbottavano tra i denti che nessun lavoro si adattava loro e che ce n’era tanta di roba da non preoccuparsi per il domani. Non che fosse stato debole con loro, come dagli effetti di potrebbe pensare; anzi di nerbate ne aveva distribuite tante che, se tutt’e cinque (le due ragazze no) non fossero stati quei pezzi di ragazzi che in realtà erano, di mal sottile sarebbero morti. Ma pare che il nerbo non educhi alle virtù come non educano le buone parole e le esortazioni: se nella creta c’è fango non è colpa del forgiatore per quanto abile sia, se i vasi si screpolano e si fendono anzi che sian vasi.
Era successo che tutt’e cinque si erano fatta una mezza infarinatura di studi classici nei collegi più disparati del Regno, da Palermo a Napoli, eppoi non ritenendo nemmeno questi degni di essere perseguiti se n’erano ritornati, chi prima chi dopo, al loro paese, preoccupandosi soprattutto a lisciar le spalle a qualche villanzone che avesse avuto l’ardire di attraversare le loro imprese amorose: ché nessuno di essi si era accasato, ma figli ne avevano in discreto numero per venti miglia all’intorno, non escluso dalla parte del mare, se si tien conto del concepimento.
Perciò a chi talvolta glielo domandava, don Pietro soleva rispondere che la colpa era sua, per aver sposato la figlia di Antonio Ballotta. E se glielo domandavano, era perché nessuno li vedeva di buon occhio, tutt’e cinque, e ognuno aveva un torto almeno da lamentare. Avere il vecchio dalla loro era per essi l’unica rivincita morale, dato che di altra specie non se ne potevano prendere.
Don Pietro, però, è sempre il protettore di quella gente, è il loro idolo, e pensa lui di nascosto a sanare in contanti ogni danno materiale o morale dei figli: lo fa di nascosto, perché se quelli venissero a saperlo male incorrerebbe chi è andato a lamentarsi con loro padre. Non che lo temano, ma hanno per lui un tale rispetto ch’è più grande d’ogni timore, e quando la sua voce si altera appena per rimproverarli vorrebbero sprofondar cento metri sotterra e lì incontrare magari l’incauto ch’è andato a lamentarsi.
Gli uomini che vivono sul mare sono per loro natura taciturni, silenziosi; ma chi vi è tra quei vecchi lupi di mare, tagliati a tutte le tempeste, che non lo ammiri, non lo chiami, lo invochi quasi, con occhi pieni di fiducia quando la tempesta imperversa ed egli scende come un nume tutelare sulla spiaggia per proferire agli elementi le parole di padron Mommo e salvare tante vite di padri e di sposi? Lui non ci ha creduto per un certo tempo; ma poi, sarà quel che sarà, finite di pronunziare quelle paroline, è come se desse un colpo netto a quelle code nere come la pece, che si protendono nel mare come il braccio di una immane piovra e ingoiano tutto quello che trovano sul loro passaggio. Sarà anche la vecchiaia, perché a settant’anni non è come averne trenta, e a trenta si ride di tutte le superstizioni di questo mondo. Don Pietro da giovine a tutt’altro aveva pensato che a miracoli e a santi, ma serio, onesto e lavoratore lo era sempre stato, anche quando a tutto quel che c’era da fare avrebbe voluto pensare solo la moglie. I figli invece, una peste! e se non fosse per lui, per quel santo uomo, altro che le terre faceva bene a prendergli il Savoia, anche la camicia da dosso, per togliere a quei vagabondi dei figli tanti grilli dal capo!
Ma non sanno che al vecchio è rimasto ben poco dopo quel salasso, non sanno che mentre i figli corrono la notte per le case più ambigue e spendono e contraggono debiti, lui è lì inquieto a vegliare presso alla scrivania, e i conti non tornano e non sa più come poter far fronte agli impegni continui di essi, ché a lui basterebbe quel po’ che si procura con la canna e con l’amo! A settant’anni è duro dover pensare al buon nome della casa quando vi sono cinque figli che fanno a gara per gettarlo nel fango. Ma don Pietro non si perde d’animo, non si scoraggia, non è della stessa pasta di quelli là lui; non dice chi sono, ma lo pensa. Ormai quel che resta da fare l’ha bell’e studiato e non c’è da porre indugi: fin che lui vive deve essere sempre don Pietro, e don Pietro è sinonimo di onestà.
Nessuno potrebbe più tacciarlo per quel che i figli commettono, ora che il più giovine ha trent’anni suonati; se contraggono debiti pensino a soddisfarli, e non soddisfacendoli siano più guardinghi nell’avvenire o se proprio non lo saranno ci pensino gli eventuali creditori. Ma quel bimbo ch’è nel vecchio strilla e strepita e si ostina a dire che don Fagà non deve essere acchiappato e portato dinanzi al giudice come un imbroglione qualsiasi. Come se acchiapparli è dire amen! mezzo esercito regio che mettesse l’assedio alla provincia ci vorrebbe, tanto hanno di armi e di amici; amici, s’intende, di bagordi e pronti a menar le mani.
Ma don Pietro ha deciso, è necessario trovare una via: li raduna una sera nella grande sala da pranzo, severa, fredda, non accogliente; un grande tavolo di noce al centro, alcuni dipinti ad olio alle pareti, un grande braciere spento in un angolo, di rame scintillante, sedie alte stile Luigi XV e un gatto che fa le fusa su una di esse. Stanno tutti in piedi, impazienti, perché la cosa è nuova per loro e non hanno tempo da perdere: eppoi a tavola non si sono mai più seduti insieme da quando è morta mamma grande (una buona vecchietta che pensava a tutte le faccende domestiche da quando era morta la moglie di don Pietro) e son circa quindici anni. Solo il vecchio non è impaziente; sembra abbia un gran peso sul cuore e se ne vorrebbe disfare, ma teme di farlo cascare su quello dei figli. Quell’indugio lo angustia, lo snerva; dall’altro irrita i fratelli riuniti che si guardano a vicenda negli occhi, quasi esortandosi l’un l’altro a prendere la parola, se il padre non si decide.
Egli li guarda ad uno ad uno negli occhi, come per timore di non averli conosciuti ancora abbastanza; poi le sue parole escono aride, senza espressione, ma risuonano nel cuore dei convenuti come tante pietre che cadono per sempre sulle tombe:

- Quattro fondi restano ed erano centosessanta e correvano per cinquanta miglia, e di cento case e palazzi ne restano soltanto cinque. Io ne ho colpa, perché alimentai tutti i vostri vizi; ora vorrei riparare a questa mia leggerezza. Forse è troppo tardi, perché avrei dovuto attaccarvi prima il basto alla groppa e non frustarvi soltanto; ma sarà tardi per voi, ché io son giunto all’età cui si è raccolto il seminato. Sono stato incauto credendo inesauribili le mie riserve; si son ridotte a nulla, ma son sempre troppe per me. Per voi temo, ché se doveste dividere in sette parti quel che mi resta, avreste da star bene un anno soltanto e non vi piacerebbe dopo prendere in mano la zappa dei vostri mezzadri. Ora si fa invece così: si vendono tutte le case che ci restano ad eccezione di questa dove abitiamo, ché la costruì mio padre e sopra ci scrisse “fidenter”; la terra no; la terra è buona, è come la madre e non si cambia con il denaro. Con quel che si ricava si costruiscono due trabaccoli: il mare è grande, ce n’è per tutti; noi non togliamo niente a nessuno, anzi diamo lavoro a tanta povera gente che non guadagna più di dieci soldi al giorno alle tonnare e per tre mesi all’anno soltanto. Io da solo non ce la faccio; se mi aiutate metto a profitto la mia esperienza, il mio nome, la fiducia che tutti ripongono in me. Lavorando dimenticherete i vostri vizi e non passerà molto che ne avrete ribrezzo; non conosco un’arma migliore per suggerirvela, ma potete credermi per esperienza: è tanto buono il pane dopo una giornata di lavoro ed è l’unico ristoro il riposo. -

Abbassarono il capo e accettarono il duro incarico i figli. Poche parole erano bastate a ricondurli alla realtà della vita.

* * *

Arene affocate, reti stese sulla spiaggia complete di piombi e sugheri, altre ancora vergini cui vien data la tinta per la prima volta, calafati all’ombra delle grandi poppe o sotto la sferza del sole a lavorar di scalpello e martello con le grandi mani arrugginite sulle matasse di stoppa dipanate, pece bollente che scende dalle fiancate, bruciando, per dare al legno un color nero lucente che il salmastro non intacca, schiene curve di vecchi figli del mare che proteggono dal solleone i lucidi crani con la berretta di nerovelluto, lavorio incessante di uomini silenziosi come avvolti nel mistero di luoghi sotterranei, e su tutti e su tutto il trionfo del sole, che sferza implacabile i torsi nudi, le acque del mare limpide e chiare come una colata d’argento, l’aria stagnante, accesa, come in mille zampilli incandescenti, dal riverbero delle arene bianche ed asciutte.
Don Pietro è lì; i suoi settant’anni sembra li abbia messi da parte per riprendere quelli della migliore giovinezza e fa a gara con i figli nell’osservare, dar pareri, consigliarsi con quelli più esperti. Quei cinque a vederli non si riconoscono più: han messo da parte gli abiti che venivano bell’e fatti da Napoli, gli stivaloni di lucido cuoio, quell’aria beffarda di superiorità e d’indifferenza; s’ingegnano invece a prender misure per collocar vele e sartiame sui trabaccoli, a dirigere il lavoro di scelta dei sugheri e a far disporre bene sulla ghiaia le reti or ora colorate, a dar una mano persino a quelli più stanchi, che il lavoro non abbia a rallentare nonostante la gran calura. E ai piedi hanno sandali di cuoio grezzo e addosso lunghi pantaloni di fustagno scuro: le grandi spalle quadrate son nude e del più bel colore dell’ebano.
Dura un’intera estate quel lavoro fervido e a fine settembre i due grandi trabaccoli son pronti per affrontare il mare: ha speso tutto don Pietro, ma quanta soddisfazione finalmente! e quanti ringraziamenti da tutta quella gente che ha lavorato e che continuerà a lavorare alle sue dipendenze!
Il giorno del varo lo vogliono con tutti i suoi figli sulla “ Giuditta” che è più bella e più grande della “Felice”, vogliono che partecipi alla prima pesca assieme a don Carmelo, il prete che è venuto a benedire i trabaccoli e che si è ubriacato a furia di brindare alla singola salute di tutti i marinai. Lo hanno poi issato sulla “Giuditta” e lo hanno gettato in una cuccetta in attesa che gli passi la sbornia, per benedire la prima retata di pesci. Anche la banda è stata invitata per l’avvenimento: solo il maestro, che ha otto figli e non sa come sfamarli, ha accettato, sebbene malvolentieri, cento lire in regalo da don Pietro; gli altri sono venuti a patto di non prendere un soldo, perché ognuno di essi ha un mestiere e la musica la coltiva a tempo perso, per diletto e per l’onore del paese, che ha la migliore banda delle Calabrie: e don Pietro l’ha sempre sovvenzionata, anche negli ultimi tempi.
Sulle prue dei trabaccoli spiccano grandi immagini di San Francesco da Paola; dicono che quello è un santo che fa gran miracoli e che con il bastone va durante la notte a picchiare sodo quelli che non vi credono: ci sono infatti di quelli che giurano, bestemmiando, di essersela ricevuta qualche mazzata sulle spalle o sul capo! Raccontano che cammina sulle onde con un semplice saio, proteggendo le navi, e che da una moneta tolta di mano a un signore e spezzatala ha fatto colare il sangue: questo però si può capire, essendo ormai pacifico che il denaro dei signori è fatto con il sangue della povera gente.
Che bazza quel giorno! pesci a bizzeffe; proprio una manna! Le reti venivano su tanto cariche che i marinai facevano gran fatica a issarle sulla tolda. Al ritorno l’ingresso nel porticciolo fu trionfale: gran folla era lì radunata ad attendere da più di un’ora. Per quel giorno ognuno prese di pesce quanto ne voleva; San Francesco ne aveva mandato in abbondanza e tutti dovevano goderne; anzi, con la scusa di San Francesco, don Carmelo, che si sentiva il suo immediato rappresentante, se n’era fatte portare a casa due ceste intere e poi nottetempo aveva spedito un uomo di sua fiducia in un paese vicino a venderlo, per potere con il ricavato accendere due belle candele al santo, per il miracolo di tanta pesca. Ma siccome era conosciuta l’indole di don Carmelo, S. Francesco starà ancora ad aspettarle, quelle due candele!
La pesca miracolosa durò alcuni giorni. Il più giovine dei cinque, Edoardo, aveva preso il comando dei due trabaccoli e da più gran vagaggino della contrada era diventato il più esperto marinaio del golfo: ché nessuna barca, dal Poro a Capo Rizzuto, appattava quei superbi trabaccoli dalle belle prore slanciate, dalle reti allestite secondo la migliore tecnica, dalle ciurme scelte tra i marinai più valenti e più giovani, con tanto di muscoli e tanto di pelo sul petto.
Fu dopo dieci giorni, mentre i due trabaccoli erano in alto mare, che si scatenò un fortunale accompagnato da poderoso vento di tramontana. Le onde altissime vennero a frangersi con violenza sconcertante sulla spiaggia, a raggiungere il lungomare, a sfondare persino le porte dei magazzini delle case più vicine al mare.
- Madonna santissima, proteggi i nostri cari – si lamentavano le madri invecchiate anzitempo dalla fatica di mettere al mondo e allevare il maggior numero di figli che avevan potuto; e le mani tremavano all’altezza della fronte, i fazzoletti sbiaditi dal tempo, che tenevano raccolti i capelli sporchi e arruffati, erano strappati dalla violenza del vento sfuggivano sulla nuca, tenuti fermi al capo da uno spillone o da una mano callosa ed ossuta, e i lamenti erano frammisti ai singhiozzi e alle preghiere di quelle povere mamme. Tacevano i vecchi e dai petti ansiosi salivano preghiere a fior di labbra all’onnipotente signore degli abissi marini, mentre le mani si passavano ad uno ad uno i grani del rosario.
Verso mezzogiorno i due trabaccoli apparvero lontani all’orizzonte dalla parte di S. Eufemia: si tenevano prudentemente al largo, non essendo possibile entrare nel piccolo porto se non a rischio di essere scaraventati sulla spiaggia con tutto il loro carico.
Scese la notte gravida di minacce, mentre il mare continuava a mugghiare con non diminuita intensità e il vento lo sconvolgeva sollevando altissimi pinnacoli di spuma e mandandolo a cozzare con tremenda violenza contro le rocce che di fratta in fratta, di grotta in grotta, si trasmettevano la lamentosa eco accrescendola come un rombo agli orecchi dei miseri raccolti là, a debita distanza, per non essere spazzati via dalle onde immense che si abbattevano sulla spiaggia.
Si erano stretti gli uni agli altri come per impedire che il calore dei loro corpi se lo portasse via il vento e al mattino non li trovasse irrigiditi dal freddo e con le guance e le labbra bruciate dal mulinar delle arene.
Don Pietro era sceso in mezzo a loro, chiamato, invocato come il nume da cui speravano l’estrema salvezza. Al lume delle lanterne che quei meschini tenevano all’altezza delle loro teste, per tenersi collegati con quelle ballonzolanti sulle onde, il viso del vecchio era pallido e spettrale; la bella barba fluente e i capelli bianchi erano sconvolti dalla sferza dell’uragano, ma immobile e saldo era come una rupe al terreno e non sembrava partecipe dell’imminente sciagura. Mai invece egli aveva sentito il tormento crudele dell’animo come in quell’istante: non poteva persuadersi che solo le forze del male potevano avere il sopravvento e che il lavoro suo, dei suoi figli, di cento uomini fino a ieri lieti del pane guadagnatosi con le loro fatiche, potesse essere annullato senza speranza.
Sembra talvolta che tutte le forze della natura congiurino contro l’uomo, mentre è vero soltanto che esse non tengono alcun conto di lui: lo ignorano, e infuriano o tacciono senza obbedire ad alcuna legge. Impotente, l’uomo impreca contro la divinità o l’invoca, se vile.
Non pregava né imprecava il vecchio, in mezzo a tutti quei miseri invocanti la grazia e il perdono di Dio. Sentiva solo il bisogno di opporre il petto ancora saldo alla furia degli elementi e sentirseli cozzare contro: era quella la sua vendetta. Mentre laggiù il più giovine dei suoi figli correva pericolo di morte e a lui erano affidate le vite di cento uomini circa, egli pensava che le opere dell’uomo possono essere buone o cattive, passibili di lode o di biasimo; ma che gli effetti di esse sfuggono ad ogni legge consequenziale, raggiungendo talvolta risultati paradossali e sconcertanti.
Aveva dato a tanta povera gente la possibilità di vivere un po’ meglio che alle bestie, aveva condotto al piacere del lavoro cinque scavezzacolli che in vita loro non avevano fatto nulla di buono, ed ecco quale sciagura poteva derivare come frutto delle sue buone intenzioni! Guardò ancora a quelle misere luci sfuggenti sulle onde, curvò il capo sul petto, stette in quella positura sino alle prime luci dell’alba.
Lo scossero grida confuse, disperate di donne scarmigliate e sgomente: i due trabaccoli andavano alla deriva, il cielo si era fatto di pece e vi si erano aperte come delle immense voragini per inghiottire il mondo; trombe marine smisurate correvano sul mare e le lunghe code nere mulinavano le acque, le sconvolgevano, sparivano in lontananza, mentre altre spazzavano tetti, sradicavano alberi, avviluppavano la terra.
- La fine del mondo! Tagliate, tagliate le code maledette che si portano via i nostri figli – lo scongiuravano le donne prendendogli le mani, baciandogliele con foga, piangendo e strillando insieme. I vecchi lo guardavano ansiosi e nei loro occhi c’era la fiducia e lo scoramento dell’attesa.
Egli alzò allora la destra nel segno della croce verso il cielo e le sue labbra aride pronunciarono le misteriose parole che padron Mommo aveva già sperimentato con tanto successo. Si era distaccato dal gruppo e avanzava verso la spiaggia su una sporgenza di terra: tutti ora tacevano e aguzzavano gli occhi in attesa del miracolo; aspettavano quasi il placarsi degli elementi a quel gesto. Ma il miracolo non venne e i trabaccoli furono sempre più portati verso terra dalla violenza delle onde; poi una tromba marina nera, enorme, roteò minacciosa dalla terra verso il mare.
Si dirigeva verso i trabaccoli e i fiati nei petti eran mozzi: un urlo, un urlo disumano e bestiale riscosse il vecchio dal suo avvilimento. Vide solo il mulinar di quei due legni laggiù e chiuse gli occhi: rovesciati su un fianco, sommersi dalle onde, essi erano ormai perduti per sempre.
Tremava la testa canuta del vecchio sullo sfondo scuro delle onde e le mani già alzatesi fiduciose verso il cielo pendevano inerti sui fianchi. Non disse una parola, passando tra la folla che si era aperta ostile al suo passaggio, ma nei suoi occhi vi era una grande tristezza. Qualcuno gli urlò dietro che aveva fatto morire tanti poveri giovani e tanti padri di famiglia; altri fecero eco a quelle parole.
Per la prima volta in vita sua soffriva veramente nel profondo dell’anima il vecchio: né la morte prematura della moglie, né la perdita di tutti i beni paterni, né la mala riuscita dei figli lo avevano abbattuto e gettato nello scoramento. Aveva considerato quei fatti come degli avvenimenti ai quali egli non aveva contribuito con la sua volontà e di cui non era il responsabile. Potevano accadere a qualunque uomo.
Ma la stima di quelle mille persone conservatasi intatta per cinquanta anni a traverso tutte le tempeste della vita e della sua terra, quella no, l’aveva voluta perder lui. Perché aveva voluto, come si dice, raddrizzare la gamba agli storpi e dar la luce ai ciechi; aveva voluto rasentare l’estremo limite della generosità e aveva peccato per eccesso; avrebbe potuto lasciar quei suoi cinque figli a pentirsi un giorno amaramente della loro dissolutezza e quei marinai a continuare a vivere con dieci soldi al giorno nella povertà e nel lordume, e invece aveva accelerato la resa dei conti dei primi, e aveva tolto per sempre gli altri dalla povertà e dalla sporcizia; aveva voluto dare un altro corso alla vita di tutta quella gente, e questo sforzo gli era costato tutto e alla sua età!
Questi amari pensieri correvano pel capo al vecchio, chiuso nelle sue stanze, la testa curva sul mento, le mani in croce abbandonate sui ginocchi.
Uscì il giorno dopo per domandare se almeno qualcuno si fosse salvato, se avessero trovato il cadavere del suo Edoardo; si sentì invece schivato da tutti quelli che incontrava, e più di una volta il loro nome salito alle labbra non seppe esser pronunciato, come perdutosi nell’aridità in cui era caduto il suo animo. Avrebbe voluto morire; capì che quella gente avrebbe anche accettato la morte di propri figli e dei propri mariti come volute da Dio, se egli fosse riuscito a tagliare la maledetta coda della tromba marina con quelle vane parole di padron Mommo; ma il non averlo fatto sotto gli occhi ansiosi dei parenti delle vittime, era la prova manifesta che Iddio lo aveva abbandonato e che non gli restava che sparire dalla vista della gente, nei cui occhi si leggeva l’accusa tremenda.
Vennero fuori i creditori; gli avvocati fecero il resto. Volle che fosse venduto tutto, e lasciò ai figli la grande casa e per sé tenne la “Torre Vecchia”, un pezzo di terra in cima alla collina che si affaccia come un balcone sul mare, grande al più tre ettari e con torre semi-diruta lì a picco sulla roccia, nido di corvi e di serpi.
Al denaro che gli restò, dopo aver pagato i suoi creditori, non volle trattenere per sé nemmeno un soldo: gli bruciavano le mani. Onesto lo era sempre stato e onesto avrebbe voluto morire; temeva però di aver contratto un debito immenso che non avrebbe mai potuto soddisfare: e quelle povere donne e quei bimbi macilenti in gramaglie non potevano essere ricompensati da nessuna somma, ché la gioia viene dalla vita soltanto e non dal denaro.
Vestì egli stesso gli abiti del dolore e scese nelle misere case ove dianzi braccia robuste si palleggiavano le innocenti creature, ove il sorriso dolce di una sposa valeva più di tutte le ricchezze della terra. E non distribuì i suoi denari soltanto, ma le sue carezze, le parole più confortevoli, i sorrisi più amari; la sua vita se lo avesse potuto, pur di ridare alla sua gente la gioia perduta.
Egli soltanto conservò intero nel cuore il suo immenso dolore. Quando gli parve di aver compiuto quel po’ che aveva potuto per lenire tante anime oppresse dalla sventura, se ne andò dal suo paese come un ladro, nel cuor della notte, arrancando per l’erta e aiutandosi per la prima volta con il bastone, curvo e disfatto dal rimorso.

* * *

Al mattino la torre diruta, dalla quale forse un giorno i nativi avevano esplorato con occhio inquieto le acque infestate dalle navi corsare, aprì i cigolanti battenti, il suo grande occhio di ciclope verso il mare, e accolse l’ospite nuovo nel suo freddo umidore.
Nella gran quiete del luogo, tra le ortiche roride di rugiada e le prime luci dell’alba il vecchio cercò Iddio: il suo occhio si affisse sulla calma distesa del golfo.
Due grosse lacrime imperlarono i suoi occhi stanchi, solcarono le gote affossate, caddero sulla bianca barba fluente: avrebbe voluto vederlo sconvolto quel mare, innalzarsi minaccioso verso il cielo, sommergerlo con la sua Torre Vecchia e perirvi lottando come il suo giovine figlio laggiù e tanti giovani ancora!
Gli parve che la natura vilmente rifiutava di lottare con un cadente par suo, un disprezzo grande gli si dipinse sul volto, vi trionfò un crudele sorriso: ... rotolò per la rupe il gran corpo ancora gagliardo e le mani, fin che un attimo di vita vi fu, protessero il volto, quasi non rimanesse deturpato nella serenità della morte.
Gracchiarono i corvi anzitempo, svegliati dall’insolito rumore, e descrissero un’ampia voluta nel cielo di perla.-

 

Fedor Nicolay Smejerlink