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Foglie morte

Foglie morte

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Si sperdono come i desideri. Foglie morte.

Fu nella piana di Mamuntanas, quando il corvo gracchia indisturbato dai sassi tesi del nurago e la civetta attende la sera prossima per fare sue le prede.

Il sole cade a sghimbescio tra le fetide pozze di Fertilia e la curva di Porto Conte, e Alghero è rossa come un’aragosta viva.

Il vento viene su, ansimando, ansimando, dal mare; il suo respiro penetra nelle forre, si avviluppa ai muri a secco, procede stanco. Si sperde nelle sugheraie e le chiome ne raccolgono il morente brivido.

Morente, intriso di sangue, implorava dal cielo una tregua alla morte. Gracchiava il corvo e la civetta sadica, taceva.

Corri, corri, prima che l’anima se ne parta più veloce, pensiero.

Una corsa folle, una corsa innocente in cerca di sole. I Grampiani sono pieni d’ombra, mi hanno invaso l’animo di tristezza; Doris mi corre dietro volentieri, nemmeno a lei piacciono le basse nebbie le brevi giornate ottobrine di Dyce.

Si affaccia come un’ampia terrazza sul mare del Nord, ha i prati verdi, le case verdi, le strade verdi. Verdemelmosa, febbricitante ai primi brividi autunnali, talvolta ci respinge, ci getta nelle braccia di Aberdeen, cieca fra cento luci sgargianti, sorda tra suoni e ritmi nuovi; una breve corsa sul Dee ch’è fiume e mare, perché ha le acque salate e io ignoro se i Grampiani siano colossi trasformati in sale per un’empietà immemore.

Lo sguardo scorre sulla carta; il Mediterraneo, le sue isole, tiepide, accoglienti: Le Baleari, Corsica, Sardegna, Sicilia, Malta, Cipro.

Interrogo Doris con lo sguardo; ho visto da presso le cerbiatte incerte, smarrite; spegnere quegli occhi è un’infamia, perché quegli occhi amano il sole. Doris adora il sole; un’isola rossiccia, trapezioidale, su sfondo azzurro. Il dito indugia. Qui. Una parola breve; un sorriso dolce, interrogativo.

I treni corrono come fantasmi, scagliano dardi irreali nella notte; ombra, luce, ombra; distaccato dal corpo, con una vita assestante, in aritmia con il sangue, in sincronia con i dan-dan, dun-dun delle rotaie. Trattenuto sul filo di un rasoio che scorre, scorre.

Doris già dorme, dischiusa la bocca, affogata nei capelli cascanti come da una pannocchia matura. Sotto le palpebre stanche, i globi si muovono percettibilmente: inseguono fantasmi luci-ombre che proiettate dal pensiero scorrono sulla retina al rallentatore.

Domani avrai una veste di raso, una sciarpa a grandi scacchi attorno al collo e i capelli raccolti in grumo rossastro sulla nuca; su una nave che si lascia alle spalle una terra piatta, nera, che ci fa le linguacce, lingue neroraspose; i monti della Tolfa nericarbone, smarriti in uno scenario pigro, in estasi.

Sento il bisogno di scendere in acqua, farmi trascinare sulla scia della nave, avvolto in una frescaserica veste azzurra, inebriarmi di guizzi come i delfini.

La Sardegna è una terra stanca, magra; è piovuto troppo sopra e l’ossatura n’è rimasta in più punti nuda, ma nulla mostra di impudico. Il sole ha rinsecchito le piaghe e ha reso le ossa bianche.

Doris salta, incespica fra queste ossa sparpagliate, conficca le unghie nella corteccia degli alberi per saggiarne la resistenza, cerca un’eco lontana alla sua voce argentina e le risponde il tintinnio lento dei campani che iugolano i bovi magri assetati.

Parliamo con la natura, per sensi occulti. L’erba è ruvida come pianete ricamate in oro; fa, fanno male alle mani tenere, molli.

Un luccicore sinistro si leva dagli acquitrini e le contadine spossate, cantilenando, si fanno solecchio, hanno nel volto le fenditure che il sughero acquista per respirare, hanno le mani rigate, le unghie smozzicate.

Doris graffia il sughero. Un uomo segue ogni sua mossa, dal viso irregolare, sgraziato; si perde nelle brache e la giacca non gli abbottona sul petto. Non guarda, esplora, fiuta la preda; come di un’era antichissima, ignota.

Doris fascinante mi urla che qui il Signore ha creato la sua quiete, che il vento quieto è il suo respiro.

Ansimando l’uomo mi guarda, quei suoni lo hanno percosso alle tempie; io, l’intruso.

Abbiamo raccolto il fiore della camomilla tra la petraia calda autunnale; Doris salendo leggera come una daina sui fianchi di montagnola ha scoperto fiori di lavanda, me lo annuncia con voce squillante che si spande rapida, improvvisa.

La nostra automobile, ferma sul ciglio della strada, se ne fa man mano colma, e Doris cerca ancora. Cerca qualcosa di nuovo, un fiore che non conosce, di cui avverte nell’aria il profumo.

L’uomo fiuta anch’esso un fiore sconosciuto, dal profumo che stordisce, e se ne sta aggrappato laggiù ad un albero, stanco. I suoi occhi hanno bagliori. I campani risuonano lenti, nel vespro.

Con il suo occhio ciclopico il nuraghe ci guarda, né divertito, né astioso. Ritiene episodi lontani, voci antiche.

Come te, vennero da altra terra, traversando il mare, uomini dallo sguardo ardente, impregnati di salsedine. Alcuni coperti di pelli, altri di bisso. Servi e signori, dissero loro la terra deserta, cantarono un inno, in coro, in omaggio al dio dei venti e invocarono la tempesta contro chi avesse osato avventurarsi verso il loro nuovo dominio. Con mani sapienti modellarono la pietra ed io venni su come un’escrescenza terrestre, snello svettante.

E gli aborigeni scesero dalle giogaie e vennero fuori dalle selve, cingendosi con corni di capro, esili. Non so se fu lussuria, desiderio di sangue, stordimento. Ma di certo il piacere della lotta; l’istintivo ardente piacere di lacerare le carni, di ritrovarsi fiere con zanne ed artigli. Accolsi i primi morti, i corpi stanchi, sanguinanti, e li protessi come figli fra le mia braccia. A me vennero devotamente pregando le donne, cessato l’odio nei cuori e stanche da lunghi pianti.

Imbruna; Doris mi incita fra le ginestre, saltando, correndo. L’ombra ti ferma come alle soglie di un mondo sconosciuto, irreale. I poggi perdono in altezza, si stendono per riposare; gli alberi fan da guardiani, divenuti altissimi, dominatori del silenzio; sterpi e roveti come consunti dal fuoco stendono una macchia nera ineguale sulla terra, ferace di tanto debbio.

Protendo le mani; una luna nascente getta miriadi di corpuscoli filiformi, tessono una trama sottile, impalpabile nell’aria senza sesso, penetrante; le sento umide, quasi bagnate, in devota preghiera. Come se un suono; come se una lontana melodia, tu sogni. L’ebbrezza raggela i corpi, il veleno il sangue. Stille di desiderio si condensano sulle nostre mani, evaporano in particelle esili, armonia di essenza fra cielo e terra.

Un fruscio, come di corpo levitato sulle stoppie, e mani, mani impregnate di sangue, per nulla. Mani maledette e sulla tua nuca un grumo rossastro, Doris. Un grumo filiforme, non i tuoi capelli raccolti, la bocca serena.

Mani intrise di veleni notturni, che in un attimo l’ombra, pronuba la fredda luna, ha prodotti. Vorrei stringere fino a che l’intreccio delle tue dita riunisse le concave palme, ma me ne manca la forza. Torpida assenza di vigoria; uccidere perché ha ucciso e questo gorgoglìo nella strozza mi fa schifo, come il contatto di un animale immondo. Allento la presa e scaglio lontano un corpo floscio; alito caprino, fetore di bovi.

Mi curvo su Doris, un rivolo di sangue giù per la fronte sul volto solitario. Un serpentello nero che si agita ai riflessi della luna come in cerca di un punto dove mordere, strisciando silenzioso sul viso bellissimo, sul collo bianco, sulla terra stanca. non sentirai più i singulti del tuo mare del Nord, non scenderai nelle gelide acque del Dee, non salirai alle verdi terrazze di Dyce per assistere ai tramonti di indaco tra le chiome brumose dei Grampiani, non, non; nell’aria si disegna un tempio evanescente, braccia leggere come di angelo sotto la sua protezione. Il marmo è freddo ed io vi poggio i ginocchi ed erro con lo sguardo fra le navate altissime confinanti con il cielo, e si dissolve ogni cosa. Resto ancora solo con Doris, tutto solo.

Non so se la luna ha teso un suo dardo, se con esso mi ha colpito fra le costole, frivola: benigna, ora che Doris tace, che non mi fa giungere la sua voce squillante argentina.

Ti sono accanto, Doris; vinto dallo stesso torpore. Ti interrogo con lo sguardo e non raccolgo né una parola né un cenno. Pare che tu mi sorrida con i tuoi occhi spenti. Spegnere quegli occhi è stata un’infamia; che almeno con queste mani ti senta ancora vicina e per esse tu possa riposare sotto la protezione di un angelo, al riparo da ogni oltraggio.

Corri, corri, anima; lasciaci soli ormai, perché il pensiero ti ha potuto precedere di quanto desiderava.

Ogni desiderio è spento. Foglie morte. 

Fedor Nicolay Smejerlink