Ero da poco uscito dall’autostrada che da Cagnes va oltre il Fréjus, larga e dal fondo solido, e avevo decelerato la marcia della vettura per godermi lo spettacolo della campagna di Provence che è uno dei più belli del mondo, quando è primavera.
Poi quasi improvvisa sopravviene una curva a gomito; la strada se ne va tutta a sinistra tra prati e filari di viti. Di là della curva vidi un braccio proteso, guantato oltre il gomito, un lieve accenno della mano. Frenai istintivamente, sebbene fossi ancora a una certa distanza dalla persona che indubbiamente chiedeva un passaggio, e per un momento ancora vidi quel braccio solo
che accennava, mentre si delineava una figura femminile alta e snella, ma tutta vestita di nero, con un collettino e scarpette bianche, e dalle cui lenti semplici, cerchiate in metallo, trasparivano due occhi dolci, incantevoli.
Tutta quell’apparizione in sé mi era sembrata dissociata; una figura che si fosse ricomposta pezzo a pezzo in pochi attimi come in un mosaico.
Mi fermai alla sua altezza, la macchina era grande, scoperta; la interrogai con lo sguardo, perché in quel momento, non so perché, non riuscivo ad articolar parola.
Si volse e mi indicò, nel prato alle sue spalle, una Opel coperta sino ai vetri dall’erba che cresceva attorno.
- Ho molta fretta, disse – mi aspettano e temo di far tardi; la sua voce era piana, calma, ma vi traspariva un’agitazione interiore come se davvero qualcosa di grave potesse accadere se non fosse giunta in tempo in qualche luogo.
Doveva aver avuto un incidente; aveva preso in velocità la curva e la macchina aveva fatto un volo nel prato senza, per fortuna, incontrare ostacoli.
Ma due cose mi colpirono in modo sconcertante, sebbene mi soffermassi sopra solo per pochi istanti: l’erba attorno alla macchina e lungo il percorso che verosimilmente aveva dovuto fare, non era schiacciata e neppure minimamente piegata, mentre la ragazza che mi stava davanti non sembrava essere uscita per nulla da un incidente, tanto le sue vesti erano ordinate e la sua persona serena.
- Devo essere a Perpignan entro stasera, le dissi – la strada è lunga e anche io temo di far tardi – accennai un mezzo sorriso; - perciò stia tranquilla che non perderemo del tempo; mi spiace per l’incidente che le è capitato... per fortuna senza conseguenze...
Fece un vago cenno con il capo, come per significare che non era il caso di parlarne – grazie, disse, - va benissimo anche per me, la mia casa è nel Roussillon.
Ora avevo ripreso la marcia, una marcia sostenuta, anche per l’impegno che mi ero assunto di accompagnarla fino ai pressi di casa nel minor tempo possibile; ma non potevo fare a meno di rivolgerle di tanto in tanto lo sguardo per leggere nei suoi occhi qualcosa che mi aiutasse ad iniziare una conversazione. Ella se ne stava eretta, impassibile; il suo sguardo dritto in avanti come per scrutare ad una ad una le cose note e meno note che scorrevano dinanzi ai suoi occhi in veloce sequenza.
A me parve tuttavia che ella fosse chiusa nei suoi pensieri, che anzi un pensiero solo la dominasse e che tutto il resto dattorno, anche se i suoi occhi vi si fissavano sopra, non la interessassero per nulla.
Volli distrarla da quella contemplazione, le chiesi come si chiamasse, se aveva una famiglia sua, laggiù nel Roussillon. Per un istante parve non aver raccolto le mie parole, tanto rimase impassibile nella sua posizione, né fece cenno di voltarsi minimamente dalla mia parte. – Jeanne – disse – mi chiamo Jeanne, esitò alquanto quasi compisse uno sforzo per continuare, - Jeanne... Dominique, un sorriso le sfiorò le labbra e mosse appena la testa dalla mia parte; il vento le scompigliava i capelli e parve che si rianimasse tutta, che perdesse un po’ della sua forzata rigidità, - solo mio padre mi chiamava Jeannette, ma qualche volta, quando non riusciva a trattenere la sua tenerezza paterna, l’altro nome me lo sono scelto da me... tutti siamo un po’ del Signore... sue creature...
Non mi parlò della sua famiglia, d’altro; riprese la sua immobilità trasognata. Da sotto le lenti i suoi occhi però tralucevano.
Avevamo attraversato Aix en Provence, superato Arles e Montpellier e il sole cominciava a declinare, l’aria si era fatta più tersa, di una trasparenza cristallina, la campagna della Languedoc si stendeva a vista d’occhio verde e viva, con i suoi filari interminabili di viti basse e folte di foglie, placidi corsi d’acqua luccicanti al sole e collinette minute come un pugno di terra gettato qua e là per capriccio da una mano ciclopica.
Le chiesi se preferiva che ci fermassimo qualche minuto per muovere le gambe e bere qualcosa. La giornata era tiepida, ma il vento che ci batteva in faccia essiccava la gola e sentivo veramente il bisogno di qualcosa di fresco da mandar giù. Ella accennò vivamente di no con il capo e stavolta si voltò verso di me con uno sguardo supplice da cui traspariva una muta preghiera di far presto, presto.
Ci eravamo lasciati alle spalle Béziers e Narbonne e alle verdi campagne di Languedoc seguivano ora i grandi filari di platani e di pini del Roussillon, intermezzati da radure di arbusti e da terrazze sassose ammorbidite da una vegetazione fitta e cadente; il sole era già tramontato e il cielo, pochi minuti prima scarlatto, si era fatto di perla con vaghe venature rosa e violetto, un brivido correva per le grandi chiome degli ontani e dai voli rapidi e brevi dei passeri e delle cince si presentiva il sopravvenir della sera.
D’un tratto l’aria si oscurò, come se il sole calato dietro la catena dei Pirenei avesse gettato su di noi la loro grande ombra. Intravedevo i suoi lineamenti morbidi e delicati e sentivo una gran voglia di parlarle, di sapere il perché di tanta fretta, di quell’incidente occorsole e sul quale non aveva fatto neppure un commento, di quel silenzio, infine, strano, pesante.
Stavo per parlare, ma non me ne diede il tempo, come se avesse intuito le mie intenzioni. - Di là – mi disse , indicandomi un bivio sulla destra con l’indicazione di Vingrau; la sua voce adesso era appena percettibile, velata, fredda.
Passammo attraverso filari interminabili di alberi, deviando di qua e di là secondo le sue indicazioni; era ormai buio e le luci della macchina battevano come su due pareti che ci serravano da presso. Pareva di correre in una galleria senza fine, da far venire il capogiro. Ad un tratto mi prese per il braccio, in fondo era apparsa una breve radura, pareva che la strada finisse lì, d’incanto. Mi fermai appena in tempo per non andare a sbattere contro l’aiuola cinta di bosso.
- Qui è la mia casa, disse, - e la mia vita è tutta qui; giorni lunghi, ma sereni, io resto qui perché hanno bisogno di me, perché non so starmene lontana...mi trovo sperduta, sola, indifesa tra la gente.....
La sua voce aveva assunto un’animazione improvvisa, pareva non parlasse per altri, ma solo per sé stessa e che confidasse alle tenebre il suo stato d’animo. Aspettavo che dicesse ancora qualcosa, quel che più la tormentava e la esaltava e intanto scrutavo nella notte per rendermi conto dove mi trovassi, ma non riuscivo a distinguere nulla, come se dinanzi ai miei occhi si ergesse una barriera di fogliame intricato.
D’improvviso cento luci mi accecarono; come d’incanto era sorto dinanzi a noi un vasto palazzo, il piano terra doveva essere composto tutto di saloni immensi, con le grandi finestre ad arco che gettavano la luce dei loro lampadari scintillanti sui giardini d’attorno, ma anche le luci dei tre piani superiori erano completamente accese, come se colà si svolgesse una grande festa e non un cantuccio del grande palazzo doveva rimanere in ombra.
- Se vuole, può accompagnarmi, disse, - pochi minuti ancora... e grazie di tutto.
Scendemmo dalla macchina e mi tese la mano, mentre io la seguivo come un automa, incredulo ed emozionato. Attraversammo un vialetto annegato in un mare di gelsomini che lasciavano un profumo forte ed acuto e ci trovammo dinanzi all’ingresso maestoso di una villa fiabesca.
Non si vedeva nessuno, nessuno si era affacciato alle finestre; non si intravedeva nemmeno un’ombra muoversi in tutta quella dovizia di luci.
Le grandi vetrate dell’ingresso centrale scivolarono lentamente senza rumore, il minimo cigolio, e ci trovammo sulla soglia del salone d’ingresso, sontuoso, scintillante di specchi che invadevano tutte le pareti.
Ella mi lasciò la mano, - mi segua, disse, - spero di farle conoscere i miei. Non si vedeva nessuno. Salimmo un grande scalone in marmo e ci fermammo al primo piano. Una porta ci si aprì dinnanzi ed entrammo in una sala vasta e sfarzosa; attraversammo così, una dietro l’altra, una diecina di stanze tutte illuminate a giorno, i muri coperti di affreschi, di antichi quadri, di arazzi.
Mi sentivo piccolo e timido in tanto sfarzo, quella era una dimora principesca non una semplice villa signorile di campagna.
Finalmente giungemmo dinanzi ad una porta massiccia, scura, severa. Essa rimase chiusa dinanzi a noi ed io interrogai Jeanne con lo sguardo. Ella si avvicinò e vi batté sopra piano, con le nocche. Passarono alcuni secondi che mi sembrarono eterni e già ero in cuor mio pentito di esser arrivato fin lassù per fare la conoscenza di gente di cui, in fondo, non mi importava nulla; magari piena di sé, che mi avrebbe accolto chissà con quale sussiego, me, un estraneo.
Finalmente anche quella porta si aprì, si spalancò senza scorrere ai lati ed intravidi una grande sala con al centro un massiccio tavolo di noce e tutt’attorno a semicerchio, ma discoste di alcuni metri, una cinquantina di creature semplici, di età diversa, ma dentro i cui occhi si specchiava una stessa ansia e una stessa gioia. Esse sedevano tutte su scanni di uguale fattura, le mani congiunte sulle ginocchia, vestite allo stesso modo di Jeanne.
- Finalmente, disse quella che sembrava la più anziana di esse, - ti aspettavamo e trepidavamo per te. Avevamo timore che potesse trascorrere tutto intero il giorno senza vederti, - e affisse gli occhi ad un grande calendario. Vi guardai anche io; segnava l’otto di maggio, la data di quel giorno, ma di un anno trascorso da un pezzo. Quel foglio era lì fermo da ventidue anni e nessuno doveva averlo più toccato, perché la carta era visibilmente ingiallita dal tempo.
Jeanne si volse verso di me e mi guardò fisso, - ora devo lasciarla, disse, - bisogna che vada anch’io ad occupare il mio posto in mezzo a loro. Esitava ad entrare. – Vieni, le disse una voce dolce e giovanile, ma non colsi chi la profferisse. Sembrava un invito partito da tutte in coro, armonico.
Ella baciò la porta ed entrò; io rimasi sulla soglia, timoroso di varcarla, attendendo che mi venisse rivolto un invito in tal senso.
Jeanne si accostò al tavolo e tutte si alzarono come volessero correre incontro per abbracciarla, ma ella si voltò verso di me e alzò la mano in cenno di saluto, di addio.
Vidi quel braccio teso, coperto di nero, come mi era apparso sul luogo dell’incidente e per un attimo tutto il resto di lei parve vanificarsi. Alzai la mano in cenno di saluto, feci un passo avanti per stringere quella mano che mi era stata tesa, ma fu come se battessi contro una parete di cristallo, invisibile. Non potevo avanzare, sebbene non scorgessi tra me e Jeanne alcun ostacolo.
Dalle finestre aperte entrò come una ventata violenta e le luci della stanza si spensero di colpo. Arretrai di qualche passo, incerto, non sapendo che fare, e la porta della sala mi si chiuse in faccia con un tonfo sordo. Ora mi trovavo solo, non c’era nessuno cui rivolgermi, mi sentivo veramente disorientato in quella casa deserta.
Un’altra ventata violenta penetrò nella stanza dove ora mi trovavo e anche qui le luci si spensero di colpo. Retrocedetti quasi di corsa attraverso tutte le stanze prima percorse con Jeanne e le luci si spegnevano di colpo alle mie spalle. Mi trovai nel vasto salone a pianterreno, un brillio di luci accecanti. L’ingresso era rimasto aperto, ma vidi che le vetrate scorrevano lentamente su cardini invisibili. Corsi fuori appena in tempo per non restare chiuso lì dentro, e nello stesso tempo tutto tornò buio come prima, impenetrabile.
Il vento ora ululava tutt’attorno e sollevava un turbine di foglie morte, di sabbia fine, di ramoscelli spezzati. Andavo a tentoni in cerca della mia macchina, ma non sapevo dove dirigermi, e allora fu come se una mano leggera prendesse la mia e mi guidasse in mezzo alle tenebre. Non c’era nessuno, ma sapevo di chi era quella mano carezzevole, amica.
Giunsi alla macchina, accesi le luci, tentai di trovare con il loro aiuto il magnifico palazzo che dovevo aver di fronte. Nulla; solo una barriera di verde si ergeva dinanzi a me, impenetrabile. Alle mie spalle il viale, alberato, solitario....
Correvo nella notte, ma sentivo accanto a me una creatura dolce, dagli occhi incantevoli, che mi guidava nel groviglio di vie prima attraversate, finché le prime luci di Perpignan mi ricondussero alla realtà ed io rimasi solo con me stesso e i miei pensieri.
Fedor Nicolay Smejerlink